Proviamo a scrivere un post “normale”…
Ho letto un libro in questi giorni, “Non riattaccare” di Alessandra Montrucchio. Seguo quasi ogni settimana la sua rubrica su Torinosette ed è sempre ironica e divertente. Ma il libro ha un argomento tragico: Torino, notte, una lei che non riesce a dormire, un telefono che suona, un lui che è l’ex di lei e che la chiama perchè ha deciso di suicidarsi. E che è a Ginevra. Il libro racconta la corsa contro il tempo che lei ingaggia per arrivare da lui, facendolo parlare per tutta la notte, per tutto il viaggio. Tutti i numerosi articoli apparsi per l’uscita di questo libro facevano riferimento al finale, io ero ababstanza infastidita, caspita, ce l’ho in borsa che mi segue da giorni, non voglio sapere come va a finire prima ancora di inziarlo. Poi una sera l’ho aperto e non ho potuto posarlo finchè non sono arrivata alla fine, con una specie di tensione. Ce la farà? Arriverà in tempo? E se arriva e lo salva, poi si riconcilieranno? In fondo se lui ha cercato proprio lei per farsi salvare, qualcosa vorrà dire, no? Il mio animo romantico faceva il tifo per questa coppia scombinata, per quest’uomo troppo fragile e per molti aspetti assolutamente infantile di cui è evidente che è fin troppo facile innamorarsi e per questa donna fragile a suo modo anche lei eppure capace di buttarsi in un’impresa folle e disperata, che prima ancora che salvare lui mira a salvare se stessa, a ricostruire qualcosa della sua tranquillità, del suo equilibrio che l’abbandono brutale e senza spiegazioni di lui ha mandato in pezzi. E’ bellissima la pagina in cui lei racconta la sua lotta quotidiana col tempo, dopo che ha cercato di fingere che va tutto bene e che anche dopo la rottura con lui la sua vita è proseguita sui consueti binari.
“Senti, smettiamola di girarci intorno, okay? Abbiamo detto che è l’ora della verità, e allora la vuoi sapere una cosa? Io lo so che cosa significa volersi buttare di sotto, anche se per me è solo la tromba delle scale, e sai da quanto lo so? Da quando mi hai lasciata, sì, meschinamente e romanticamente è da quando mi hai lasciata che lo so. Vuoi sapere come sono le mie giornate, da q1uando mi hai lasciata? Be’, ci sono due giornate-tipo. Giornata-tipo numero uno. Mi sveglio ed è atroce, perchè sbatto contro una vita senza di te ed è peggio che sbattere contro un muro, è come sbattere contro una sega accesa, e se mi alzo non è perchè voglio alzarmi, anzi, se andassi dove mi porta il cuore morirei di abulia, mi alzo soltanto perchè se resto a letto la sega si incanta e continua a tagliarmi e rimandarmi indietro, a tagliarmi e rimandarmi indietro, e allora mi alzo e mi dico dài, la sfida di oggi è arrivare all’ora di pranzo, perciò metto su il caffè e dedico a ogni minimo atto meccanico un’attenzione paranoica, stare attenta che non si versi neanche un granello di zucchero mentre lo verso nella tazzina e stronzate simili, almeno così guardo meno la porta e non penso troppo alla tromba delle scale, e finalmente arriva l’ora di pranzo e per un istante, solo per un pazzesco istante mi sento euforica, ebbra, ce l’ho fatta! ce l’ho fatta! ma poi l’istante passa e passa anche l’ora di pranzo e davanti agli occhi mi si pare un demone degli inferi, la consapevolezza che devo ancora affrontare tutto il pomeriggio e tutta la sera, e allora esco e magari sto fuori un’ora o anche due, ma poi sono di nuovo a casa con quell’invitante tromba delle scale subito al di là della porta, e quindi cerco di badare ad altro, ma a che cosa? non c’è niente a cui badare, me lo devo creare io qualcosa a cui badare, e così mi metto a ripetere una frase con varie intonazioni e accenti finchè non diventa una filastrocca, oppure butto per terra delle cose e le rompo così ho qualcosa da fare, raccogliere i cocci, e ho anche un dolore diverso perchè quelle cose le amavo e le ho sacrificate per nulla. O magari faccio per ore lo stesso movimento sperando che mi ipnotizzi o mi purifichi, ed è ora di cena e butto giù un pezzo di formaggio muffo e tiro le dieci, e alle dieci mi concedo un sonnifero e sparisco fino al mattino”.
Il silenzio copre il fruscio del motore.
“E la giornata-tipo numero due?” La sua voce ha messo la sordina
“Be’, certe mattine mi dico, ma perchè affrontare la giornata, se posso evitarlo? Così prendo un sonnifero, dormo otto ore, prendo un sonnifero, dormo otto ore e così via”
Il silenzio sul fruscio del motore, sull’autostrada deserta, abbandonata all’ombra mostruosa delle montagne.
“Come hai fatto a resistere alla tromba delle scale?”
Dovrebbe chiederti scusa, dirti che si sente una merda per averti lasciata, spiegarti il perchè – e poi aggiungere che ha commesso un errore terribile, che ti ama ancora e che vivrà, se lo perdoni, che vivrà grazie a te e per te. Ma per farlo dovrebbe sentirsi in colpa, e lui non può sentirsi in colpa, stanotte. La colpa gli darebbe un senso, quello dell’espiazione.
“Non ho abbastanza energia per uccidermi”
Il libro è anche fresco di stampa, per cui non voglio rovinare a nessuno il finale. Che non è nessuna delle cose che si pensano leggendo il libro, è imprevedibile, crudele, ironico, di un’ironia cattiva. Ci sono rimasta malissimo. Guardavo la pagina finale del libro e mi dicevo che non poteva finire così.